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Amarilli Nizza sings Suor Angelica aria and finale (1/2)

SUOR ANGELICA

Nessuna tentazione fin dall’inizio. Di inzuppare le mani e gli occhi dentro un materiale così lirico, struggente, sentimentale. Di “teatralizzare” il dolore o di riscattarlo attraverso la “rappresentazione” di un miracolo. Di trattare la sofferenza come uno spettacolo distante dalla mia esperienza, dai miei sguardi sul mondo, dai miei riferimenti culturali. Dalla mia biografia e dal desiderio di offrire un piccolo omaggio ad un grande maestro del cinema. A Ingmar Bergman. A “luci d’inverno”.

Tenni a lungo fermo lo sguardo, finché non vidi altro che una stanza spoglia e una (ma)donna sola. Entrambe consegnate al mistero delle loro passate esistenze. Una donna reclusa e nello stesso tempo votata dentro uno spazio in cui sedare e seppellire il proprio desiderio e la propria angoscia. Nulla, inizialmente, sembra presagire il dramma di quella donna e di quel luogo. Complice il lontano rintocco delle campane, l’incipit dell’Ave Maria, l’apparente serenità della vita claustrale che esalta l’atmosfera di quiete sospesa dove anche il tempo sembra essersi rarefatto.

E tuttavia esso affiora poco a poco nell’affollarsi di presenze femminili quasi immateriali. Così care ai miei ricordi. Come parvenze, figure della mente, scivolano dentro mura ospitali nelle quali consumare il distacco dal mondo e dagli affetti terreni. Disegnano ombre e accompagnano i loro lievi passi con sussurri e sospiri, sommesse preghiere e ingenue maldicenze, pene e rimorsi veniali. Evocano desideri, colpe e tormenti celati che si volevano eludere per sempre. Ex-ludere. Lasciar fuori dal gioco crudele del vivere, da un passato che si ripete come condanna in eterno presente. Poi l’annuncio di una visita spezza l’attesa. Una grata si disegna su un muro e un velo incornicia un volto senza età. Attraverso essi, risuona la voce di chi proclama la propria colpa e la propria innocenza e invoca una via d’uscita, la richiesta di una certezza.

Libera il desiderio a lungo macerato nel ricordo e invoca una assoluzione o una condanna. Quella donna e quel luogo allora cominciano a definirsi. Si tratteggiano sulle punta delle mie dita che scrutano i silenzi. I contorni delle loro esistenze si fanno più chiari fino ad acquistare un nome e a comporre il dramma. Fatto di cose esplicite e di cose sottintese. Il dramma parlato di una madre alla quale è stato strappato il figlio, ma anche il dramma taciuto di un’altra donna a cui è stata negata la maternità perché votata a preservare il nome di un’antica famiglia, a trascorrere le ore dentro il simulacro di un austero e nobile palazzo. Le due storie si incontrano, si scontrano, si separano in un grido lacerante.

Un grido lacera la cornice dentro alla quale si confinava l’attesa. Ma non dischiude alcun paradiso, poiché, e non solo a me, qualsiasi forma di trascendenza ultraterrena suona blasfema. Non solo a me: anche a Puccini e a quelle note dissonanti del coro che rafforzano la disperazione e la crudeltà di una visione delirante e allucinata. Poiché Dio viene meno proprio sulla soglia del suo ri-velarsi. A fronte del tempo in cui l’Inquisizione interdisse le immagini della Vergine con il ventre gonfio e bollò come blasfeme le immagini della Ma(donna) del parto, io non temo di riconsegnarvi un corpo bianco riverso in terra e la luce bianca che cancella le mura. Per uscire dal teatro e rimanere a interrogarmi, ancora sgomento, sull’inesprimibile sofferenza, sul desiderio di ricongiungermi a un corpo perduto per sempre, sul segreto che sta a fondamento delle nostre esistenze.